In un libro fantastico, Colori, edito dalla Marsilio Editori, Luciana Boccardi descrive il giallo come gamma cromatica dell’estro creativo, della dinamicità, colore “dell’avventura intellettuale, dei teorici, degli astratti, della ricerca pura“. Un giallo sinonimo quindi della straordinarietà, intesa nella sua accezione più autentica: ciò che si cela al di fuori dell’ordinario.

Lo sapeva bene, o perlomeno l’aveva intuito, lo stesso Van Gogh, la cui produzione artistica fu fortemente influenzata dall’utilizzo di questa tinta. Un sodalizio quello tra il giallo e l’artista olandese perpetrato negli anni, che ancora accende il dibattito di studiosi e professionisti su quel particolare binomio tra arte e pazzia.

Non c’è blu senza giallo” ci ricorda Van Gogh, sottintendendo forse che la strada verso la più pura e malinconica introspezione inizia da quell’ “avventura intellettuale” citata in precedenza, e cioè dal desiderio stesso di esplorare, di entrare nel vivo, nelle forme più feroci e creative.

Ospedale Psichiatrico TeramoMi tornano in mente queste parole mentre, macchina fotografica al collo, percorro in silenzio il dedalo di corridoi che si snodano all’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico di Teramo. A quest’ora del giorno il giallo irradiato attraverso i vetri opachi dalla luce proveniente dall’esterno illumina gli ambienti di un chiarore caldo e rassicurante. Quello stesso giallo in qualche modo identitario degli ospiti che qui hanno soggiornato negli anni, individui teorici, astratti e dediti alla perpetua ricerca di un’illuminazione spirituale.

Quella del nosocomio psichiatrico teramano è una struttura tra le più note della sua categoria in tutto il Centro Italia, composta da oltre 5.000 mq di locali organizzati fino al 1998 per la cura e degenza di una vera e propria popolazione di malati. Il manicomio di Teramo fu, come spesso è stato definito, una città nella città. Paragone di certo non azzardato se si pensa che nel suo periodo di massima operosità, alle porte del secondo conflitto mondiale, ospitava circa 1.000 pazienti e 100 operatori tra specializzati e non, senza contare quelli relativi all’indotto.

Un vero e proprio universo addossato alle antiche mura che una volta cingevano la circospezione cittadina sulla soglia di Porta Melatina, patria di ogni genere di emarginato, clinico, sociale o politico che fosse. Qui venivano rinchiusi i disadattati, i violenti, i beoni, i visionari, gli antisociali. Qui trovavano dimora le “recluse“: donne di ogni età internate per i motivi più disparati, le cui storie sono state in parte raccontate da Annacarla Valeriano nel suo “Ammalò di testa – Storie del Manicomio di Teramo“. Storie di isolamento, in contesti storici incredibilmente difficili. Storie di grida, le stesse che i cittadini di Teramo udivano con quotidiana abitudine nei pressi di Piazza San Francesco, filtrare attraverso le pesanti inferriate della struttura.

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Storie in qualche modo fortemente legate alla stessa identità cittadina, tanto da far sì che uno dei vicoli adiacenti la struttura fosse dedicato proprio a loro, le recluse.

Teramo, non a caso, è ancora nell’immaginario collettivo la “città dei matti“, definizione sovente utilizzata per dileggio verso i suoi stessi abitanti, ma più concretamente figlia di un luogo così ferocemente e a lungo parte di questo capoluogo.

Il nucleo originario della struttura, nato con la funzione di semplice ospedale, fu inaugurato nel 1323 e dedicato a Sant’Antonio Abate. All’interno del complesso infatti è ancora presente, in pessime condizioni di fatiscenza, la chiesa dedicata al Santo anacoreta alla quale era possibile accedere dallo stesso istituto così come dall’ingresso di Via Aurelio Saliceti, dal lato di Porta Melatina.

Sant'Antonio AbruzzoL’ospedale restò in funzione per un totale di 675 anni, di cui 117 come ospedale psichiatrico a partire dal 1881.

La prospettiva stretta delle corsie, fregiate qui e là dalle scritte degli ultimi degenti ospitati nella struttura, le vettovaglie, le feritoie sulle porte dei servizi igienici per il controllo dei pazienti, gli androni vuoti e asettici, i documenti clinici dimenticati, gli effetti personali nelle stanze: l’ex Ospedale Psichiatrico di Teramo è un piccolo mondo che parla. Racconta storie di isolamento che ancora trasudano la spietata entropia della malattia mentale.

La suggestione di trovarsi al suo interno è ora interrotta dall’ovattato rumore del traffico proveniente dall’esterno, ora fomentata dal rumore di  porte che sbattono, aperte o chiuse dal vento. Rumori naturali, che una volta riempivano la quotidianità di questo luogo e che oggi sembrano invece risuonare come echi lontani.

Al di là di tutto, il manicomio di Teramo è ancora vivo, nelle parole di chi lo ha descritto, nelle immagini di chi lo ha ritratto, nei ricordi di chi lo ha vissuto. Quella che per centinaia di anni rappresentò forse la più prolifica azienda locale accoglie oggi gli sporadici visitatori che, come me, hanno talvolta occasione di visitarlo in tutta la sua fiera crudezza.

Una crudezza resa ancor più vera dall’abbandono lampante dello stabile, dai tratti decadenti di mura ed arredi e dai suoi giardini, introspettive oasi di contemplazione, sulle quali, ieri come oggi, si apre vasto il cielo a chi lo osserva dal basso, alla ricerca del proprio posto nel mondo.

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Gotico Abruzzese

Vivo a Sulmona (AQ), dove sono nato e dove da qualche anno ho deciso di tornare a vivere. Mi occupo di web content e redazione di articoli, saggi e sceneggiature. Dall'autunno del 2013 sono inoltre editor di Gotico Abruzzese, un progetto nato con l'intento di raccontare un Abruzzo onirico e fuori dall'ordinario.