Di Antonio Secondo.

Dopo averlo citato nella prima uscita di Kvlto, torniamo a parlare di Luigi di Gianni e dei suoi documentari etnologici.

Uscito nel 1962, Grazia e Numeri è un’opera filmica di appena 15 minuti che racconta la devozione del popolo napoletano, ed in particolare di quello residente nel rione Sanità, per gli scheletri contenuti nel famoso cimitero delle Fontanelle.

culto dei morti napoli

Cimitero delle Fontanelle, Napoli

In quest’antica cava per l’estrazione del tufo furono ammassati i corpi delle vittime della grande epidemia di peste del 1656, di quella di colera del 1836 e quelli contenuti in alcune altre chiese cittadine bonificate in seguito all’invasione delle truppe di Gioacchino Murat in città, per un totale di 40’000 corpi. Il popolo partenopeo, tra i più avvezzi della penisola italiana ai particolari riti che caratterizzano il culto dei defunti, era solito recarsi in questo luogo per adottare un’anima “pezzentella”; con questo epiteto vengono indicati gli anonimi teschi che dimorano all’interno di questo cimitero, tanto che il culto divenne noto come delle “anime pezzentelle”. La venerazione del defunto era la prerogativa del rito: le sue spoglie venivano riordinate e le teche che le custodiscono e rassettate in modo decoroso. In questo modo gli avventori speravano di guadagnare i favori del defunto, che ricambiava l’osservanza dei pellegrini esaudendo le loro suppliche. Nonostante il rito sia oggi quasi praticamente estinto, visitando il cimitero è possibile ancora imbattersi in qualche anziana devota o ammirare alcune delle suppliche lasciate negli anni nelle bocche o nelle teche dei teschi, raccolte in una bacheca all’ingresso del sito. Alcune contengono scongiuri per allontanare malattie o curarle, proteggere la prole o risolvere problemi di carattere quotidiano. Altre, più drastiche, richiedono milionarie vincite al Lotto.

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Cimitero delle Fontanelle, Napoli (© Fabio Marras)

I culti legati al mondo dei morti rappresentavano un aspetto importante della società italiana, e in special modo di quella antecedente al boom economico degli anni ’60. Numerosi sono gli ordini che su questi riti hanno redatto il proprio manifesto, come la Confraternita dei Devoti di Gesù Cristo al Calvario di Roma, meglio conosciuti come i “sacconi rossi”, per via del loro caratteristico costume, che si occuparono di donare degne sepolture alle vittime senza nome del fiume Tevere, decedute in seguito ad inondazioni o annegamenti occasionali. La stessa confraternita era addetta alla cura delle vittime di epidemie di peste in diverse cripte cittadine, e promotrice di una particolare processione di commemorazione dei defunti, inscenata ogni 2 Novembre di ogni anno sull’isola Tiberina.

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Confraternita dei Sacconi Rossi ( © Fausto Podavini)

Com’è noto, il 2 Novembre non è una data casuale. In questo giorno ricade infatti l’anniversario di Ognissanti, festa cristiana riconosciuta in tutti i paesi cattolici e dedicata alla memoria degli estinti. Il rito trae le sue origini dal pagano Samhain, il capodanno celtico, attraverso il quale le popolazioni del nord Europa festeggiavano la fine dell’anno solare e delle attività agricole. Era un periodo molto particolare, in cui le provviste per i difficili mesi invernali erano state stipate e il vino raccolto nelle botti iniziava a fermentare. I paesaggi sfiorivano a vista d’occhio sotto il freddo tocco dell’autunno e il simposio della morte della natura sembrava presagire un’imminente avanzata delle tenebre. Erano giorni in cui il sottile limite che separa il mondo terreno da quello spirituale veniva a mancare, assorbito dall’avanzare del buio, e gli spiriti tornavano in visita ai loro cari per lenire le sofferenze dettate dalla morte. Per questa ragione i celti erano soliti organizzare in queste giornate chiassosi baccanali sulle tombe dei propri estinti, in cui l’orgia dettata dal cibo, dalle danze e dal buon vino fungesse da diletto anche per le anime tormentate, che in questo modo potevano far ritorno nel loro Mondo senza crucci né indugi. Nella cultura pagana e in quella popolare i defunti venivano, tra le altre cose, associati alla fecondità dei campi e ai riti propiziatori ai raccolti, e tenuti quindi particolarmente da conto come germi di preziose messi in quanto, mediante il loro benefico influsso, avrebbero riportato la prosperità sulle tavole di chi aveva provveduto a officiarli.

capetiempe

Cerchio delle festività celtiche

Con la sconfitta degli eserciti romani e l’avvento in tutta Europa delle orde barbariche i riti del Samhain iniziarono ad essere praticati anche nella nostra Penisola, nonché nella nostra Regione. L’influenza che i celti ebbero sulle popolazioni abruzzesi è facilmente intuibile se si pensa al lampante esempio del suffisso pen, comune nella nostra toponomastica (Penne, Penna Sant’Antonio, Forca di Penne, Pennapedimonte…), che deriva da un’accezione celtica traducibile grossomodo in “alto monte”.

cimitero celtico

Aspetto di un comune cimitero di matrice celtica

Il capodanno celtico, o Samhain, attecchì in Abruzzo in particolar modo tra le popolazioni della Valle Peligna e dei comuni ad essa limitrofi, dove però assunse il nome di Capetièmpe (Capotempo). Proprio come il Samhain, il Capetièmpe aveva una durata di dieci giorni (dal 1 Novembre all’11 dello stesso mese, giorno di San Martino), durante i quali era necessario attuare una serie di riti per garantirsi il benemerito degli spiriti e quindi delle future attività agricole. Questi riti erano suddivisi in quattro principali fasi, tradotte pressappoco in riti Solari (falò, fiaccole, farchie), riti Funebri o di Purificazione (per placare i defunti), riti detti “di passaggio” (per riavviare il tempo e la ciclicità del lavoro agricolo) e riti di Fertilità (per propiziare il lavoro dell’uomo).

notte delle frchie

Le farchie di Fara Filorum Petri

Nell’VIII secolo d.C., con l’avvento in tutta Europa della dottrina cristiana, le autorità ecclesiastiche iniziarono ad appropriarsi dei miti pagani dei celti e a riconvertirli in chiave cattolica. Così gli eroi uccisori di draghi si tramutarono in San Giorgio, quelli delle tempeste in Sant’Elia, le dee della fecondità furono assimilate dalle figura della Vergine e delle sante, e il Samhain divenne la festa di Ognissanti. Nonostante però i tentativi di debellare completamente i particolari più primitivi del rito, il culto del Capetièmpe sopravvisse a lungo nelle terre dei peligni parallelamente ai riti cristiani. Basti pensare che, secondo documenti ufficiali, la pratica di banchettare nei cimiteri per “festeggiare” con i defunti fu vietata a Sulmona e nella Valle Peligna solo nel 1861, a seguito dell’Unità d’Italia.

culto dei morti

Una famiglia moldava impegnata in un pic-nic cimiteriale accanto ai propri cari. (© Carlo Gianferro)

Durante la prima notte del Capetièmpe, quella tra l’1 e il 2 Novembre, considerata “la notte del ritorno”, era consuetudine non sparecchiare la tavola, lasciandovi un misero commensale e due dita di vino nel bicchiere, affinché i defunti potessero trovare al loro arrivo un chiaro segno di non essere stati dimenticati. Le porte delle abitazioni venivano lasciate socchiuse e il pavimento non veniva spazzato. Queste particolari usanze erano permesse solo in occasione dei periodi di ritorno (Capetièmpe, Natale, Carnevale, Ascensione…) in quanto se attuate in altri periodi dell’anno avrebbero attirato i morti in casa in un momento non consono al loro ritorno, indispettendoli.

Le vie cittadine e le finestre delle case si riempivano di candele che servivano ad illuminare il cammino degli spiriti e a far si che questi riuscissero ad individuare le abitazioni in cui una volta dimoravano. Le ricche famiglie cittadine erano solite preparare numerose pietanze che dopo essere state consumate metaforicamente dalle anime dei defunti nella notte del ritorno venivano elargite ai poveri del paese il mattino seguente.

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Alfa e Omega. Particolare del cimitero di Sulmona (Foto via Gotico Abruzzese)

La carità, intesa come opere di carità cristiana, verso gli indigenti, gli infermi e i bambini era molto sentita nei periodi di ritorno. Nella cultura popolare i poveri rappresentano “gli invisibili”, che proprio come spiriti terreni vagano sulla terra alla ricerca di requie. I bambini invece sono sinonimo di rinascita, di rinnovamento e della vita che continua, proprio come le entità ipogee che, se imbonite dalle offerte, propiziano la rinascita delle sementi. Queste due categorie venivano quindi considerate come vicarie degli spiriti sulla Terra, e fare loro un’offerta era considerato al pari di farla direttamente agli spiriti.

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Finché venga la trasformazione. Particolare di una cappella nel cimitero di Vittorito (AQ) (foto via Gotico Abruzzese)

E’ possibile inoltre riscontrare molte assonanze tra quello che fu il Capetièmpe peligno e i tradizionali riti di Halloween, provenienti dalla stessa matrice celtica della ricorrenza abruzzese. I bambini di Sulmona e di altri comuni del circondario come Pratola Peligna e Pettorano Sul Gizio erano soliti girare per le strade del paese con le facce impiastricciate di calce, cenere o farina, ossia bianche come quelle di piccoli fantasmi, recandosi di casa in casa per riscuotere le bene degli adulti: offerte di cibo o monete di piccolo taglio. A Raiano e Prezza, paesi contadini ad ovest della Valle, i ragazzi intagliavano le “chècocce”, zucche di grandi dimensioni private della polpa e decorate con occhi e bocche demoniache, nelle quali veniva posizionato un cero in grado di farle brillare al buio e spaventare i passanti.

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Halloween, festività anglosassone derivante dal Samhain celtico, simile per molti aspetti al Capetièmpe

Oltre le analogie esposte è però interessante notare come ogni cittadina della Valle in questione vivesse questo particolare momento dell’anno, rispecchiando nei propri riti e nelle proprie leggende la propria identità culturale. E’ il caso, per esempio, della “Scurnacchièra” di Introdacqua, unaprocessione di defunti che nella notte di Ognissanti vagava silente per le vie del paese dirigendosi dapprima nella chiesa principale, dove un parroco defunto avrebbe officiato una messa per le anime, e poi nelle case dei parenti ancora in vita, dove i fantasmi avrebbero consumato il banchetto a loro destinato prima di far ritorno al cimitero alle prime luci dell’alba. Secondo la leggenda in capo alla Scurnacchièra avanzavano i bambini nati morti, seguiti dagli adolescenti e dagli adulti e chiudevano il cordone le ombre dei defunti più anziani, morti per cause naturali o per malattia. Tutti i fantasmi recavano in mano una candela e procedevano in silenzio, senza distogliere lo sguardo dai propri passi. Chi si fosse malauguratamente imbattuto in questa sfilata di anime avrebbe avuto vita breve: vedere la Scurnacchièra significava apprestarsi a farne parte.

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Rappresentazione grafica della Santa Compana, processione galiziana simile alla Scurnacchiera introdacquese (foto daltramontoallalba.it)

In altri paesi della Valle i bambini, durante il giro di questua, si divertivano a disegnare teschi e tibie sui portoni delle case, come a voler affermare la presenza del passaggio delle sacre entità nella notte a loro dedicata. Nei giorni prossimi alla vigilia di San Martino in molti villaggi rurali comeCocullo, Scanno, Villalago o Anversa degli Abruzzi le massaie nascondevano una moneta in speciali dolci a base di farina gialla, fichi secchi, miele e zucchero, conosciuti come “pizze coi quattrini”, che venivano poi distribuiti ai bambini. Come abbiamo detto un’offerta fatta a loro era considerata una “caparra” al defunto, ma ciò che è più interessante notare è come questi dolci, e quelli simili preparati nel circondario di Sulmona, ricordino in qualche modo quelli cucinati durante le Antesterie ateniesi della Grecia antica, conosciuti a loro volta come “il cibo dei morti”.

Nonostante la lunga lista di tradizioni e cerimonie che lo contraddistinguevano il Capetièmpe è però oggi completamente scomparso dalle nostre usanze, inglobato e ridotto quasi esclusivamente ai più moderni riti che accompagnano l’odierna festività di Halloween. In seguito all’abbandono dei campi e all’avvento di numerose fabbriche nell’area peligna, avvenuto a ridosso degli anni ’70, la figura del contadino è mutata in quella del proletario prima e del medio borghese poi, rinnegando i suoi fasti e molte delle antiche e primitive tradizioni che fino a quel momento l’avevano accompagnato. La memoria di una preziosa costumanza in perpetuo vacillo fra culto pagano e cristiano rivive oggi solo nei racconti dei pochi superstiti che l’hanno vissuta, e che di qui a pochi anni raggiungeranno i tristi camposanti sui quali un tempo era consuetudine banchettare con gran fracasso, e sui quali regna oggi il più indifferente silenzio.

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Particolare della chiesa di San Marcello, Pacentro (AQ) (foto via Gotico Abruzzese)

Per maggiori info sul Capetièmpe e sugli altri miti della cultura popolare Abruzzese visita la pagina Facebook Gotico Abruzzese.

Fonti e bibliografia.
Capetièmpe, capodanni arcaici in Valle Peligna, di Vittorio Monaco (Synapsi Edizioni), 2004.

Gotico Abruzzese

Vivo a Sulmona (AQ), dove sono nato e dove da qualche anno ho deciso di tornare a vivere. Mi occupo di web content e redazione di articoli, saggi e sceneggiature. Dall'autunno del 2013 sono inoltre editor di Gotico Abruzzese, un progetto nato con l'intento di raccontare un Abruzzo onirico e fuori dall'ordinario.