“Le Roi est mort, vive le Roi!”
Motto della monarchia francese

Volendo rappresentare graficamente la nostra attuale concezione del tempo potremmo farlo tracciando una linea retta segmentata da quegli avvenimenti che reputiamo degni di nota. Uno scorrere lineare, intervallato da punti, come in un libro di testo propedeutico all’insegnamento della Storia, dove i capitoli relativi a ere e periodi del passato si susseguono senza soluzione di continuità dall’impero romano, al medioevo, e così via fino alle epoche più moderne in modo più o meno approfondito in base al grado scolastico.

D’altronde, per noi “impero romano” non sono che due parole, all’interno delle quali sono però raccolti cinque secoli di nascita, sviluppo e decadenza di un’intera civiltà.

Facendo nostra questa convenzione, quella della linearità del tempo, possiamo oggi ipotizzare l’istituzione di un nuovo segmento utile a decretare la fine di un’epoca, di un capitolo della nostra storia, e l’inizio di un altro. La storia è quella che, come abruzzesi, rappresentiamo e il tempo quello che va dall’Abruzzo della civiltà contadina alla nostra contemporaneità.

All’interno di questi due segmenti dobbiamo, per onestà intellettuale, inserirne un terzo di raccordo. Quello, cioè, caratterizzato dal tentativo di riconversione industriale di questa regione, miseramente fallito nell’arco di soli trent’anni, ma determinante nel mutamento dell’identità sociale abruzzese.

transumanza abruzzo

Pescara, 1970: quando l’ambivalenza di questa regione era ancora profondamente tangibile

Certi dell’inesorabile scomparsa della prima era, del declino della seconda e alla costante ricerca di un senso in quella in cui viviamo, introduciamo le considerazioni che seguono partendo da una premessa fondamentale: un altro Abruzzo è morto, e uno nuovo è in procinto di nascere.

 

La fine della civiltà contadina e il granello di sabbia nel mare

Di Abruzzi ne sono esistiti tanti in epoche diverse, ognuno con una dimensione propria, con un proprio modello economico, architettonico, folklorico, ma tutti in qualche modo legati tra loro da una prerogativa comune: l’identità rurale.

Una caratteristica radicata al punto da costituire la narrazione dell’Abruzzo stesso fuori dai suoi confini, nell’immaginario collettivo di una terra da sempre associata ai figuranti delle tele di Teofilo Patini, dei cafoni di Silone, delle donne michettiane, della povera gente. Una narrazione la cui eco arriva ancora a noi da lontano, seppure in maniera molto labile, attraverso lo sguardo e le parole dei più anziani tra i nostri paesi, testimoni dell’ultimo Abruzzo rispetto a quello che conosciamo oggi.

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Roccacasale (AQ), 2017: l’ultimo Abruzzo

 

Un Abruzzo in cui, come ricorda la signora Concetta di Gagliano Aterno, classe 1936:

Ci si svegliava che ancora era notte e io, che ero una bambina, uscivo a prendere il posto alla fonte. Gagliano ne aveva tre e l’ultima, quella sotto il ponte, l’avevano fatta coprire con una tettoia di cemento gli uomini che erano andati in America coi soldi che avevano fatto lì, perché le loro mogli non restassero sotto la pioggia quando andavano a prendere l’acqua o a lavare i panni. Dopo qualche ora, mia madre, che nel frattempo aveva sbrigato altre faccende, mi raggiungeva e io potevo lasciarle il posto e tornare alla stalla per mungere le vacche e portare il latte a chi lo aveva prenotato. Tutto questo prima che sorgesse il sole. All’alba tornavo a casa a preparare la colazione per mio padre, quando non era uscito di notte per andare in campagna, e alle mie sorelle più piccole, e solo dopo potevo andare a scuola.

[Testimonianza orale raccolta nell’estate 2018, italianizzata nella forma]

Di quell’Abruzzo oggi sopravvive il ricordo. Le cause della sua sparizione sono molteplici e senza dubbio fisiologiche. Già negli anni ’60, Pier Paolo Pasolini ne “la scomparsa delle lucciole” raccontava la fine dell’ultima generazione rurale italiana, soppressa dalla società dei consumi. Una premonizione al tempo lampante nella Roma pasoliniana del boom economico e edilizio ma che in Abruzzo, come sempre nella nostra regione, giunse con decenni di ritardo.

Non a caso, l’anello di raccordo tra la civiltà contadina abruzzese e quella post-industriale non è rappresentato dalla generazione dei cosiddetti “boomers”, come invece si è verificato altrove, ma da quella successiva, dei “millennials”, che hanno contemporaneamente assistito alla graduale disfatta contadina, iniziando a raccoglierne memoria prima che fosse estinta del tutto.

In tutto questo, il sintomo più evidente del passaggio dall’ultima generazione rurale abruzzese a quella che oggi ci caratterizza risiede proprio nella modifica di un concetto essenziale espresso in precedenza: la concezione del tempo.

L’antica popolazione contadina abruzzese, soggetta più della nostra allo scandire dei cicli annuali delle colture, dei raccolti, dei lunghi inverni di magra e dei mesi di “grascia”, rappresentava se stessa nel moto uroborico di un ricorso perenne. In una concezione, in sostanza, più circolare che lineare.

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Uroboro, la ciclicità del tempo

È nelle parole di Vittorio Monaco in “Capetièmpe – Capodanni arcaici in Abruzzo” (Synapsi Edizioni, 2004) che riusciamo a cogliere il fulcro di questo concetto:

Il senso della circolarità è insito nell’etimo stesso della parola “anno”: annus, dal latino arcaico an per circum, significa tanto “anno” quanto “anello” (annulus).

Vittorio Monaco – “Capetièmpe, capodanni arcaici in Abruzzo” (Synapsi, 2014)

Una concezione dalla quale traevano spunto miti, espressioni e modi di dire, basati proprio sulla ciclicità del tempo:

Ti pago a San Martino” – per designare il periodo dell’anno in cui, tra la vendemmia e il rinnovo dei contratti di mezzadria, i cafoni avevano modo di saldare i debiti accumulati.

A la Cannlòra, da le ‘mmièrne semm fòre” – chiusura del ciclo invernale e inizio di quello primaverile.

A l’Ascènze, lu ràne parte da la tèrre” – “nel periodo dell’Ascensione, il grano scompare dai campi”.

Quando la Majella mette il cappello, vendi la capra e compra il mantello” – chiusura del ciclo autunnale e inizio di quello invernale.

Lo stravolgimento di questa concezione costituisce il passo che innesca definitivamente il processo di scomparsa della civiltà contadina abruzzese, in funzione di quella industriale e post-industriale.

Una scomparsa dettata dall’espatrio degli emigranti a seguito del secondo conflitto mondiale, dalla perdita del dialetto (oggi meno di una storpiata rivisitazione di quelli anticamente parlati), dei suoi costumi tradizionali (come quello quotidiano ancora vestito dalle ultimissime anziane di Scanno), dalla trasformazione dei riti folklorici e popolari da bagaglio culturale a mera allegoria odierna. Con la perdita di queste particolarità termina una delle ere più longeve della nostra cultura, cedendo il passo ad una nuova, brevissima epoca.

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Scanno, 2017: l’ordinario di un tempo diviene straordinario moderno

 

La riconversione industriale: nascita, sviluppo e decadenza di un sogno abruzzese

A partire dai primi anni ’60, sulla scia della ripresa economica nazionale, anche l’Abruzzo viene investito da una ventata di innovazione. O meglio, da una promessa in tal senso. L’idea è quella di aprire nuovi collegamenti e infrastrutture fondamentali per la mobilità e l’industria, in particolar modo nelle aree interne.

Con l’approvazione della legge n. 634 del 29 Luglio ’57 nascono i primi Consorzi Industriali nella regione. Dapprima nel vastese, nel teramano e nel Fucino, poi anche nella Val Pescara, a L’Aquila, Sulmona e nella Val di Sangro. Il processo di riconversione industriale è supportato dall’impiego degli “Obiettivo 1”, fondi strutturali destinati al finanziamento di strategie e attività di impresa utili ad attrarre grandi investitori in grado di portare lavoro in aree svantaggiate.

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Lo stabilimento FIAT – Magneti Marelli di Sulmona, oggi | Foto di Savino Monterisi

Le zone individuate vengono dotate di infrastrutture indispensabili per l’industria: una rete idrica, fognaria e di depurazione dell’acqua d’avanguardia, strade per il transito di mezzi pesanti e cablaggio telematico per servire gli stabilimenti, i quali vengono ulteriormente foraggiati da sgravi fiscali, incentivi e contributi pubblici a pioggia e agevolazioni per l’acquisto di terreni a prezzi irrisori per dislocare la produzione in loco.

Le favorevoli condizioni fiscali, la nutrita presenza di ingente manodopera non specializzata e, in principio, non sindacalizzata attira in Abruzzo grandi aziende, quasi tutte provenienti dal nord Italia e dall’Europa settentrionale. L’Abruzzo, e più in generale il meridione italiano, diviene in quegli anni ciò che per l’odierno capitalismo produttivo rappresentano Paesi come Bangladesh, Polonia o Albania.

Nel giro di vent’anni, solo in Valle Peligna, nascono gli stabilimenti ACE – Siemens, FIAT – Magneti Marelli, Tonolli, FATME – Eriksonn, Lastra, Parmalat, Italfinish e molti altri. Nel periodo di massima espansione, sono circa un centinaio le aziende del comprensorio industriale a nord di Sulmona.

Il progetto originale prevede la suddivisione di 448 mila ettari in aree dedicate alle imprese commerciali, artigiane, produttive e di servizi. Purtroppo l’insediamento avviene a macchia di leopardo, e dopo vent’anni aziende con un determinato orientamento commerciale vengono a trovarsi per i motivi più disparati in aree pensate per altre tipologie di imprese.

Il consumo di suolo muta la pianura de “la Maddalena“, zona che Nicola M., ex dipendente della FATME / Eriksonn, ricorda ancora come “la migliore zona agricola della Valle Peligna”, in un satellite cittadino dedicato al comparto produttivo e commerciale.

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Sulmona, 1979: squadra di calcio dello stabilimento FATME, con il Morrone sullo sfondo

Cambia l’assetto urbano con la nascita di nuovi quartieri cittadini, come quello delle “case FIAT”, costruite dall’azienda per essere rivendute ai propri operai. Ma più di ogni altra cosa, la riconversione industriale trasforma l’identità sociale dei sulmonesi da rurale a proletaria nel primo periodo, da proletaria a classe media nel lungo.

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Le “case FIAT” di Sulmona, oggi | Foto di Savino Monterisi

La rivoluzione ha il carattere di un sogno, durante il quale la città perde rapidamente i suoi connotati arcaici in funzione di una nuova identità. Nelle famiglie il dialetto si parla sempre meno, le feste minori del calendario foklorico iniziano a perdere importanza, il benessere economico rivoluziona i consumi, la concezione del tempo, i ritmi quotidiani, le abitudini domestiche, il paesaggio.

In una trentina d’anni, la Sulmona selvaggia uscita dalle pagine di “Attraverso gli Appennini e le terre d’Abruzzo” di Estella Canziani (Synapsi, 2014) si trasforma in quella di “Parenti Serpenti” di Monicelli.

Poi il sogno si infrange, e in un modo tremendamente italiano.

All’inizio con la chiusura degli stabilimenti ACE e Siemens negli anni ’70, in un periodo in cui lo stabilimento impiegava circa 1.200 persone, di cui una gran parte femminile. Un evento per il quale lavoratori, sindacati e cittadini si mobilitano in numerosi scioperi e cortei nel tentativo di scongiurare un processo irreversibile. Il ricordo di quei moti raccontati, tra gli altri, dal giornalista sulmonese Maurizio Padula, è ancora vivo nella memoria storica cittadina.

 

Nel 1996, l’Abruzzo è la prima regione del sud ad uscire dalla sussistenza degli “Obiettivo 1”. Gli stabilimenti, non più viziati da finanziamenti pubblici e progetti di defiscalizzazione, semplicemente chiudono, e vanno via, accumulando polvere sotto il tappeto. Tra la polvere, procedure fallimentari per dislocare nuovamente la produzione altrove, discariche abusive di rifiuti industriali, abbandono degli stabili e casi di patologie sviluppate all’interno dei reparti chimici di alcuni stabilimenti mai del tutto chiariti.

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L’ex stabilimento ACE di Sulmona, oggi | Foto di Savino Monterisi

La situazione è ben descritta dalle parole di Franco Iezzi, per quarant’anni direttore del Consorzio per lo Sviluppo Industriale Peligno, raccolte dal giornalista campano Carlo Puca:

“Negli anni ’60 il governo decise di insediare le fabbriche anche nel Sud Italia. E, consapevole di non poter fare altrimenti, riempì le tasche degli imprenditori. Tra contribuiti a fondo perduto, finanziamenti a tasso agevolato e premi speciali in cambio di assunzioni, lo Stato coprì almeno l’80% dell’investimento di impresa nel Mezzogiorno”

Carlo Puca – “Il Sud deve morire” (Marsilio, 2016)

Ma è sempre Iezzi a individuare, tra le stesse pagine, un’ulteriore ragione alla base dell’insuccesso del progetto.

“Nel Nord – Est del Paese, nel passaggio dall’agricoltura all’industria si è creata una nuova classe imprenditoriale. Lì, il contadino strappato ai campi ha osservato e riprodotto il modello, anche in via rudimentale, ma con un approccio industriale, trasformandosi prima in artigiano e poi in imprenditore.”

Carlo Puca – “Il Sud deve morire” (Marsilio, 2016)

Una teoria che spiegherebbe, tra le altre cose, perché l’Abruzzo, pur avendone i presupposti, non sia mai riuscito nella costruzione di una solida rete cooperativistica, come accaduto in Emilia Romagna, Piemonte o altre regioni di storica vocazione contadina.

Come a dire che forse Flaiano, quando nella celebre lettera all’amico Scarpitti descrive gli abruzzesi come “gente con una sola morale: il lavoro” si sia dimenticato di aggiungere: “purché subordinato al padrone”. E quando il padrone, dopo aver cementificato, intascato i fondi e sfruttato la forza lavoro, decide di sbaraccare lasciando un deserto di abbandono il sogno industriale finisce. È quello che accade, a Sulmona come altrove, alle porte del nuovo millennio.

Nel frattempo, le montagne si sono svuotate e i contadini hanno dimenticato il mestiere.

Solo nella decade tra il 1951-’61:

la popolazione presente in montagna diminuisce del 13,6%. Non si era mai verificato in passato un tracollo così marcato, né mai si sarebbe ripetuto in futuro. [..] Nel ventennio 1951 – 1971 emigrano definitivamente dall’Abruzzo oltre 300.000 abitanti

Costantino Felice – “Il Mezzogiorno operoso, storia dell’industria in Abruzzo” (Donzelli, 2008).

Le montagne scivolano a valle come una frana. Gli spettri degli odierni paesi delle aree interne abruzzesi non sono, quindi, che il frutto dell’emorragia ininterrotta di quegli anni.

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Cansano vecchia, 2017: abbandonata tra gli anni ’50 e ’60

Ricorda ancora Concetta di Gagliano Aterno, centro rurale montano della Valle Subquana:

Negli anni ’50, la giornata nella piazzetta davanti la fontana medievale iniziava alle 4 del mattino. Tra le pecore che salivano in alpeggio, le donne che andavano a infornare il pane, chi consegnava il latte e chi andava in campagna, praticamente tutto il paese a quell’ora era in strada. Un signore che faceva il ciabattino e aveva la finestra che ridava sulla piazza si affacciava tutte le mattine a fumare e guardava il tran tran di uomini e bestie che si muoveva in strada. E ogni mattina, mentre salivo verso la stalla dei miei genitori, mi chiamava per chiedermi chi fosse partito quella mattina e io gli facevo l’elenco di quelli che avevano fatto i bagagli per andare in Canada, in Belgio, in Venezuela o anche solo a Pescara. In quegli anni era così, ogni mattina partiva qualcuno e bisognava rifare i conteggi.”

[Testimonianza raccolta nel 2018, italianizzata nella forma]

Oggi, per sapere dove si sia diretta la gran parte degli abitanti di un tale paese abruzzese basta guardare, in molti casi, con quale città del mondo esso è gemellato. Hamilton (Canada) per Sulmona, Gagliano Aterno e Pratola Peligna. Vaughan (Canada) e Berazategui (Argentina) per Lanciano. Charleroi (Belgio) per Manoppello. E così via.

A queste città di mezzo mondo appartiene oggi una parte d’Abruzzo.

Con l’emigrazione, la cultura popolare viene privata dell’unico presupposto in grado di determinarla, il “popolo” appunto, che dileguandosi consegna all’oblio un patrimonio culturale affinato in millenni di storia.

Non a caso, è possibile oggi ascoltare dalla bocca degli emigranti partiti in quegli anni che occasionalmente fanno ritorno in patria termini ed espressioni dialettali scomparsi nel paese natio, che le nuove generazioni non riconoscono come propri. Ciò che resta a seguito del passaggio dalla società contadina a quella industriale non è che un granello di sabbia nell’immenso mare di quel che abbiamo perduto. Un valore solo recentemente riscoperto dalle nuove generazioni di abruzzesi, ma in forme spesso rivisitate, quando non proprio allegoriche.

 

L’ultimo Abruzzo e quello che verrà: considerazioni dalle terre di mezzo

Se quella dei nostri nonni fu l’ultima di una lunga tradizione rurale, e quella dei nostri padri l’unica di una breve parabola industriale, è ora necessario chiedersi: a quale generazione di abruzzesi appartiene quella in cui viviamo?

L’Abruzzo che ci è stato consegnato è una regione di conflitto, senza più nessuna delle due vocazioni narrate in precedenza. Una terra di mezzo, fatta ancora di giovani che emigrano, di montagne che continuano a svuotarsi, di sonni della ragione che generano eco-mostri (come testimoniano lo stato dei nostri fiumi o i diversi progetti di grandi opere impattanti come Ombrina, SNAM Rete Adriatica, Elettrodotto Villanova – Gissi, etc.), incendi montani e mafie dei pascoli.

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Abruzzo, 2018: le terre di mezzo

Una terra in cui, dopo il fallimento del sistema industriale, nuovi modelli di business sono spuntati all’orizzonte. Tra tutti, la valorizzazione turistica del territorio, esaltata (a parole) dalla classe politica abruzzese a panacea di tutti i mali senza tuttavia una reale strategia in grado, almeno per ora, di generare non dico utili, ma perlomeno una progettualità orientata a questo scopo.

Parlano chiaro, invece, i nuovi dati Confartigianato / ISTAT 2019, che non fanno che confermare quelli del rapporto CRESA sul turismo in Abruzzo di pochi anni fa nel descrivere un territorio dove le performance turistiche sono ben al di sotto rispetto alla media nazionale (appena 6 milioni di presenze nel 2019, rispetto agli oltre 60 milioni delle regioni capofila).

Un settore dove tra le dozzinali proposte delle istituzioni regionali, come le polemiche di professionisti digitali sul lavoro non retribuito degli “Abruzzo Smart Ambassador” o foto delle Maldive spacciate per spiagge locali, a farsi largo con modelli virtuosi, esperenziali, sostenibili e del tutto autorganizzati sono i singoli cittadini, molti dei quali giovani e giovanissimi, che a loro spese e spesso senza alcun sostentamento (quando non addirittura ostacolati) riescono in progetti molto più lungimiranti.

È il caso, per citarne alcuni, della Transiberiana d’Italia, promossa dall’Associazione LeRotaie, delle molteplici cooperative promotrici di turismo lento nei territori montani, dei liberi professionisti e organizzatori di eventi impegnati nella promozione delle eccellenze locali, spesso quasi in un’ottica di reciproca mutualità.

L’Abruzzo di chi ha scelto di restare, di chi ha scelto di tornare in montagna, di investire nella cultura, di difendere il territorio dalla devastazione ecologica e sociale, ai quali le redazioni continuano a riservare articoli di giornali celebrandone solo il romantico eroismo, senza mai approfondire le cause del conflitto, affezionando il pubblico all’idea che per essere felici in questa terra sia necessario essere povero e impopolare.

Gran Sasso Abruzzo

Fabrizio, 2019: la sua storia è raccontata qui

Una generazione cresciuta senza i “finanziamenti a pioggia” come quella che l’ha preceduta, senza nessun deus ex machina pronto a dar loro un’opportunità, colpevole solo di amare questa terra, senza neanche sapere il perché. Una generazione che, come fa notare il giornalista Savino Monterisi sulle pagine de IlGerme, ha iniziato a chiedersi “Di che morte dobbiamo morire e di che vita vogliamo vivere?“.

A tutti loro è dedicato questo scritto.

E se è vero, come sosteneva Montale, che “la morte odora di resurrezione” prendiamo oggi atto che un altro Abruzzo è morto, e uno nuovo è in procinto di nascere.

Ma nel costruirlo facciamo in modo che “à la mòrt du Roi” non segua una nuova monarchia, ma una repubblica del popolo, conscia del proprio passato e con lo sguardo rivolto al futuro.

Vivo a Sulmona (AQ), dove sono nato e dove da qualche anno ho deciso di tornare a vivere. Mi occupo di web content e redazione di articoli, saggi e sceneggiature. Dall'autunno del 2013 sono inoltre editor di Gotico Abruzzese, un progetto nato con l'intento di raccontare un Abruzzo onirico e fuori dall'ordinario.