N.d.E.: Quello che segue è un contributo per il blog condiviso con noi da uno dei suoi lettori e relativo ad antichi riti e credenze in uso nel piccolo borgo abruzzese di Campo di Giove (AQ) ai piedi della Majella. Per nuove segnalazioni, contributi, proposte, invio di materiali e commenti è possibile scrivere all’indirizzo mail info@goticoabruzzese.it 


di Marco del Mastro

Pur essendo sconosciuti ai più i riti e i miti di Campo di Giove sono e furono davvero tanti, tutti molto fantasiosi.

La causa della loro scomparsa dalla tradizione popolare è da attribuire in primo luogo alle trasformazioni antropologiche a cui ogni popolo è soggetto, ma anche al passare del tempo che, per natura, lascia dietro di se certe sfumature culturali.

Uno degli eventi al quale i campogiovesi hanno sempre attribuito superstizioni e pregiudizi è il periodo della gravidanza. La venuta di un bambino costituiva per tutta la famiglia un motivo di gioia ma sovente anche di invidia da parte di qualcuno del vicinato.

Tradizione voleva che tutto il paese andasse a trovare la prossima mamma portando in dono una mela (frutto della seduzione di Adamo ed Eva) con delle piume di gallina conficcate al suo interno e lei, in base al numero di queste ultime, doveva restituire agli avventori dei fritti tipici locali chiamati “scherfèlle”.

La malizia delle streghe era una delle peggiori sciagure da scongiurare in questo periodo, considerata una vera desolazione per le famiglie. Quando in casa si sospettava la presenza di una strega, le prime a dover stare in guardia erano appunto le donne incinte che vivevano periodi di vera e propria paura perché le megere usavano succhiare il latte dal loro seno mentre esse dormivano e di conseguenza i bambini deperivano e spesso morivano. C’erano però dei rimedi per sfuggire alla malizia di queste creature maledette.

La prima premura della madre era quella di recare al collo del neonato un’insieme di amuleti avvolti in un tovagliolo di lino. Gli amuleti di solito consistevano in un dente di lupo, un aculeo di riccio ed un mazzetto di peli di gatto selvatico, insieme ad altri oggetti come crocette o medaglie votive.

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C’era anche l’usanza di porre dietro la finestra una spiga di granturco che serviva a distrarre la strega, o un mazzo di spighe di grano sormontante da una testa di agnello o una scopa.

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© Eugenia di Pasquale

Le streghe inoltre erano solite entrare dal buco del camino o dal buco della chiave. Era dato al capo famiglia e ad altri uomini il compito di catturarle mediante specifici rituali, ma non sempre l’operazione andava a buon fine e quando accadeva il neonato era destinato a morte certa.

Quando accadeva le comari accorrevano presso la casa colta dalla disgrazia. Un gesto estremo da parte di quella più anziana poteva scongiurare la morte del fanciullo, si prendeva quindi un pugno di grano e lo si immergeva in un vaso d’acqua. Dopo un’ora si andava a verificare se il grano era “fiorito” o era rimasto intatto. Nel secondo caso la sorte del bambino era irrecuperabile. Tra i pianti della madre e delle altre donne si preparava il letto di morte.

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© Andrea di Gregorio

La salma veniva di solito posta su di un tavolo, ai cui piedi una delle donne doveva porre un fascio di trentatré candele e tre croci alle quali erano appesi rispettivamente due fazzoletti bianchi. A questo punto arrivava il reverendo del paese che benediceva il cadavere. Dopo la benedizione era compito della comare recarsi in seno la salma del bambino e portarla al camposanto per la sepoltura.

Un altro compito che la comare doveva assolvere era quello della preparazione della cena da consumare dopo la celebrazione delle esequie (recùnzele o consolo). La tavola rimaneva imbandita anche alla fine della cena perché ritirare le suppellettili sarebbe stato di sinistro augurio.

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© Sara Salvatore

Un costume tipico campogiovese è stato anche la lamentazione sulla salma che ricorda il rito delle prefiche romane.

Il giorno del funerale i parenti maschi erano soliti seguire il feretro avvolti in pesanti mantelli neri, mentre le donne erano vestite a lutto con un tipico velo nero ricamato.

Quando la morte coglieva il pastore lontano che si trovava nelle terre pugliesi a darne l’annuncio alla famiglia era una donna che, di buon mattino, deponeva una lampada accesa alla soglia della casa colta dal lutto. La lampada rappresentava simbolicamente l’anima del defunto che veniva riconsegnata alla famiglia.

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Fonti:
Usi abruzzesi, Giovanni Pansa (opuscolo)
Il nuovo convito, 1916

Vivo a Sulmona (AQ), dove sono nato e dove da qualche anno ho deciso di tornare a vivere. Mi occupo di web content e redazione di articoli, saggi e sceneggiature. Dall'autunno del 2013 sono inoltre editor di Gotico Abruzzese, un progetto nato con l'intento di raccontare un Abruzzo onirico e fuori dall'ordinario.