Enrico Scuro è la voce perenne dell’esperienza giovanile italiana degli anni ’70. Parlo di “esperienza giovanile” e non di “contestazione”, come di solito avviene, perché quella dei giovani italiani dei ’70 non fu esclusivamente una pratica di dissenso, ma anche di sperimentazione e costruzione.

Nato a Taranto nel 1952, Enrico Scuro si trasferisce a Bologna “per amore”, a soli vent’anni, all’inizio di quel grande fervore collettivo iniziato nella capitale emiliana dalla generazione a lui coeva. Fotografo free-lance da un lato e simbolo della gioventù dei ’70 dall’altra, Enrico si immerge e ritrae l’atmosfera di quegli anni con dedizione impagabile.

Collaboratore dell’agenzia fotografica Grazia Neri, e di innumerevoli progetti redazionali iconici di quegli anni (come il periodico Linus), le foto di Enrico Scuro spuntano ogni qual volta un libro o una mostra tematica desideri raccontare la spigliatezza rivoluzionaria e la rabbia dei movimenti giovanili italiani di oltre quarant’anni fa.

Attraverso i suoi scatti, Enrico racconta il Movimento del ’77 a Bologna, con le feste di Radio Alice, le assemblee e le occupazioni del DAMS, i funerali del militante di Lotta Continua Francesco Lorusso e gli scontri che ne seguirono.

Racconta l’ultima scia di quel movimento: l’installazione delle prime telecamere in centro a Bologna, un giovanissimo Nanni Moretti che parla agli studenti del DAMS nel ’78, ma anche i risvolti più tragici di quel periodo, come la bomba alla stazione di Bologna e i funerali di Stato all’inizio degli ’80.

Racconta infine le due facce dell’Italia di quegli anni: da un lato quella rinchiusa nel bozzolo della sua identità culturale, con i riti della religione popolare della regione Puglia, dall’altra quella impaziente di spiegare le ali verso il futuro. Di questo secondo aspetto fanno parte i raduni giovanili, molti dei quali vissuti con la necessaria provocazione di chi intendeva creare una spaccatura all’interno della società, con l’introduzione di nuove idee decise a rivoluzionare tutto.

È seguendo l’ondata di queste esperienze, da quelle storiche del Parco Lambro di Milano fino alle prime edizioni dell’Umbria Jazz, che Enrico arriva, nel Luglio del ’77, a Villavallelonga, paesino rurale dell’Abruzzo marsicano, dove migliaia di giovani (si parlò di circa 5.000) si diedero appuntamento per un festival intitolato “L’Orso con il sacco a pelo e la chitarra”, all’insegna della libertà di espressione.

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La locandina del raduno

Quelle che seguono sono le sue impressioni sull’evento.


Ciao Enrico, grazie per la tua disponibilità. Come scopristi dell’esistenza del festival e perché decidesti di parteciparvi?
Mi sono ritrovato nel festival come Alice si è ritrovata nel paese delle meraviglie seguendo un coniglio bianco. Quell’estate ero a Bologna e non avevo niente in programma. Una amica mi ha proposto di andare con lei nella sua città natale, Pescara. Mi piaceva e mi è sembrata una buona idea per conoscerla meglio. E’ stata il mio coniglio bianco. Arrivati a Pescara mi ha subito fatto conoscere i suoi amici e il suo ragazzo (sigh). Sarebbero partiti il giorno seguente per un festival nel Parco d’Abruzzo.

Che fai Enrico, vieni con noi?”. La scelta era tra restare a Pescara solo soletto, tornare nella calda Bologna a non fare niente o un salto a Taranto dai miei. Sono andato con loro.

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Cosa ricordi del viaggio per arrivare a Villavallelonga?
Più del viaggio ricordo, una volta sceso dell’auto, l’impressione di bellezza che dava la valle. Ampia e dolce. Lontana dal mondo, produceva subito una sensazione di serenità.

Quali furono i rapporti tra i partecipanti al festival e la popolazione locale?
Direi ottimi. Io per popolazione locale intendo chi viveva lì sul luogo del festival. Quindi le mucche, i cavalli e il pastore che ho incontrato. Erano loro, per me, i veri residenti. C’è stato rispetto reciproco. Noi abbiamo cercato di non dare fastidio a loro, e loro a noi. Abbiamo convissuto tranquillamente. Per esempio nel lavarsi era bandito il sapone in modo da non inquinare la loro acqua.

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Ricordi qualche episodio in particolare degno di essere raccontato?
Non un episodio, ma tutta la situazione del vivere nella natura. La mattina gli umani migravano verso l’abbeveratoio degli “animali”. Anche loro, tutti insieme, sembravano una piccola mandria intorno alla pozza d’acqua. Ho capito bene come, alla fin fine, il genere umano non è altro che una delle componenti della fauna terrestre e come l’acqua sia un bene primario inalienabile per tutta la vita sul nostro pianeta terra.

Da ciò che ho letto, l’iniziativa fu promossa dall’amministrazione locale e dal Partito Radicale, ma non mancarono momenti di tensione con esponenti della sinistra extra-parlamentare. Quali erano al tempo i rapporti tra le istituzioni e il movimento?
Era il settantasette, i momenti di tensione per le diverse visioni delle cose erano una normalità. Poi, francamente, quelli che possono essere definiti “scazzi organizzativi” erano in realtà ben poca cosa rispetto a quello che succedeva quasi quotidianamente in Italia. Per quanto riguarda una visione più generale sul territorio italiano, direi che variava da luogo a luogo. Alcune amministrazioni cercavano il dialogo, altre cercavano di inglobare, altre ancora di escludere.

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Qual’era, a tuo avviso, il sentimento fondante in festival e raduni di questo genere?
Il trovarsi e stare insieme in libertà. Direi che è stata la continuazione del mito hippy “Peace & Love”. Però erano passati diversi anni dall’Isola di White o Woodstok e i tempi erano già cambiati. Il tasso di politicità altissimo mal si conciliava con il vogliamoci tutti bene.

Credi che questo tipo di esperienze rivestisse un’importanza fondamentale per quegli anni, o che anche oggi sia in grado di rappresentare un’idea attuale?
Importanza fondamentale direi proprio di no, nel senso che non erano né il “fine” né un mezzo per arrivare alla meta. Erano semplicemente delle esperienze di vita insieme. Oggi non mi sembra ci sia una cultura diffusa tale da far supporre un loro essere attuali. Ciò non toglie che se il mondo continua ad andare nella direzione in cui va non rinasca uno spirito “bucolico” . Non identico ma simile a quello che ha portato ai grandi raduni nella natura.

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A quale degli scatti è legato un tuo ricordo particolarmente significativo di quell’evento?
Uno scatto ben preciso: le mucche e il furgoncino Volkswagen. Ero vicino alle mucche quando ho notato il furgoncino all’orizzonte. Ho subito visto mentalmente l’immagine che volevo fotografare, sarebbe stata l’icona del raduno. Dovevo sperare che il furgoncino passasse proprio lì, in quel punto preciso. L’attesa è stata lunga e l’ansia naturalmente man mano aumentava. Ed è passato proprio lì, dove speravo. I sogni che si realizzano.

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Vivo a Sulmona (AQ), dove sono nato e dove da qualche anno ho deciso di tornare a vivere. Mi occupo di web content e redazione di articoli, saggi e sceneggiature. Dall'autunno del 2013 sono inoltre editor di Gotico Abruzzese, un progetto nato con l'intento di raccontare un Abruzzo onirico e fuori dall'ordinario.