È un culto tra i più vivi e sentiti quello di Sant’Antonio Abate, nella regione Abruzzo così come più in generale in tutta l’Italia delle tradizioni popolari e delle feste contadine.

L’anacoreta egiziano, nato a Come (attuale Kemah) divenne celebre grazie alla penna di Atanasio il Grande, vescovo di Alessandria, che nel suo Vita Antonii ne raccontò le numerose tentazioni vissute nel deserto subsahariano durante l’eremitaggio. Gesta tramandate oralmente lungo tutto il medioevo da cantastorie e giullari ai contadini analfabeti dei piccoli villaggi europei, che ascoltandole ne modificarono i tratti e le dinamiche al fine di renderle più “umane”.

Iniziano così le mille leggende di carattere popolare su questo santo eletto a rappresentanza dei ceti più umili, di tutti quegli uomini e quelle donne che attraverso il suo esempio fanno fronte cioè alle difficoltà e alle tentazioni della vita.

Temptation of St Anthony

Pieter Bruegel, Tentazione di Sant’Antonio (1550)

Sant’Antonio nella cultura popolare.

Nella provincia francese di Lione esiste un villaggio alle porte di Vienne chiamato Bourg Saint-Antoine. È qui che, volendo cercare a ritroso, potremmo stabilire l’origine del culto dedicato al santo così come lo conosciamo oggi. Secondo Laura Fenelli del Warburg Institute of London, autrice del libro “Dall’eremo alla stalla – Storia di Sant’Antonio Abate e del suo culto“, le spoglie del frate eremita furono infatti traslate nel paesino francese nell’XI secolo da un militare di ritorno da Costantinopoli, città fino a quel momento custode delle reliquie a seguito dello scoppio delle prime crociate in terra d’Egitto.

Dopo un ammonimento papale a causa dell’indebita appropriazione di quei resti, il militare, che le aveva ricevute come merito per essersi distinto in battaglia, le spoglie vennero donate a dei semplici fraticelli di campagna appartenenti all’ordine dei benedettini. Questi le sistemarono in una teca all’interno del monastero da loro abitato, che da quel momento iniziò ad essere meta di numerosi pellegrini interessati a chiedere grazie per malanni di diversa natura.

Erano gli anni delle diffuse epidemie di ergotismo, una patologia simile all’herpes zoster (noto anche come “Fuoco Sacro” o “Fuoco di Sant’Antonio”), scaturita dal contatto con un particolare fungo della segale i cui sintomi producono, tra le altre cose, dolorosissime piaghe ustionanti diffuse su tutto il corpo.

L’intera provincia di Lione era preda del contagio, e sempre più degenti cercavano rimedio attraverso l’intercessione di quel santo domiciliato nel monastero benedettino alle porte di Vienne, la cui località inizia allora per l’appunto ad essere conosciuta col toponimo di Saint-Antoine.

L'Abbaye de Saint-Antoine, nei dintorni di Vienne (Francia). Foto via

L’Abbaye de Saint-Antoine, nei dintorni di Vienne (Francia). Foto via

Data la nuova mole di lavoro, i fraticelli, stanchi di dividere le quote del loro sacro operato con i benedettini ai quali facevano capo, chiedono al Vaticano il riconoscimento ufficiale di un nuovo ordine, quello degli Antoniani, che viene presto autorizzato.

Tra le attività di sussistenza dei frati del convento c’è l’allevamento di suini, animali che al di là dei prodotti alimentari vengono impiegati per la produzione di un particolare unguento a base di lardo utilizzato per curare le escoriazioni scaturite dal nuovo male.

L'ergotismo nell'iconografia medievale

L’ergotismo nell’iconografia medievale

È così che il santo fa la conoscenza del noto maialino che ancora oggi compare nell’iconografia più tipica dell’eremita. Dapprima in sordina e anche un po’ osteggiato dai più potenti rappresentanti della curia di allora che non vedono di buon occhio l’accostamento di una figura santa a quella di un animale tanto impuro, e in seguito in forme sempre più diffuse grazie alla diffusione, nei primi anni dell’800, della tecniche di stampa in serie.

Da lì all’elezione di “protettore degli animali” il passo è breve. Non c’è una stalla dal Nord al Sud Europa in cui il santo non venga celebrato con un’effige a protezione del bestiame, tanto più che proprio il maiale rappresenta per il popolo l’animale simbolo di sostentamento ed abbondanza per eccellenza. E poco importa se proprio nel suo Vita Antonii, Atanasio fa menzione a come proprio Sant’Antonio spendesse in realtà per gli animali da cortile parole di condanna, in quanto considerati emblemi di peccati di gola, e per questo diabolici tentatori. Ironico, non è vero?

Sant'Antonio e il maialino

Sant’Antonio e il maialino

Sant’Antonio Abate e l’Abruzzo: storia di una lunga amicizia. 

Come in altre località italiane caratterizzate da una forte cultura agro-pastorale, in Abruzzo il sentimento di affezione verso questo santo fa particolarmente breccia, fomentata dalle sue leggendarie inclinazioni alla tutela di animali da allevamento. Tanto più che il mese designato per le celebrazioni di Sant’Antonio è quello di Gennaio, periodo in cui nella tradizione contadina era in uso uccidere il maiale per ricavarne salsicce ed altri prodotti da consumare durante l’anno.

Allo stesso modo il 17 Gennaio è ancora in molti casi dedicata alla benedizione degli animali, che avviene solitamente di fronte alla chiesa principale del paese. In epoche più remote era consuetudine degli abitanti del posto acquistare in società un giovane maialino che veniva denominato per questo “maiale di Sant’Antonio“, nutrito da tutti i partecipanti all’investimento durante l’arco dell’intero anno e poi ucciso ed equamente spartito in occasione di un nuovo acquisto l’anno successivo. Qui e là è possibile leggere di testimonianze che raccontano di come questi maiali fossero lasciati liberi di razzolare per il paese, e che per distinguerli venisse loro appeso un campanello al collo o, molto più brutalmente, reciso l’orecchio sinistro.

maiale abruzzo

Un momento dell’uccisione del maiale in Abruzzo

Si racconta che alla vigilia del giorno del santo, la notte del 16 Gennaio, questo facesse visita alle stalle per chiedere agli animali come fossero stati trattati durante l’anno dai loro allevatori.

La stessa notte in molti paesi abruzzesi come Tocco da Casauria (PE) venivano celebrati i santantuonje, canti di questua eseguiti da attori in costume che, tra una strofa e l’altra, inscenavano goliardici teatrini in cui erano rappresentate le tentazioni dell’anacoreta nel deserto. Quasi sempre queste messe in scena avevano in comune un ilare epilogo in cui al diavolo di turno le prendeva di santa ragione. Quella dei santantuonje è una tradizione che sopravvive ancora in molti comuni, come nel caso di Tocco da Casauria appunto, e che deriva da manifestazioni del tutto similari, già in voga durante il medioevo.

canti sant'antonio abruzzo

Canti di questua a Cellino Attanasio (TE), in occasione di Sant’Antonio Abate. Foto via

L’indole essenzialmente villica di queste rappresentazioni era ben espressa dai diversi sonetti intonati dai questuanti, quasi sempre inventati e tramandati oralmente, e anche per questo caratterizzati spesso da momenti comici ed osceni, come nella migliore tradizione popolare.

Ne è l’esempio la strofa di chiusura di un santantuonje raccolto nei dintorni di Sulmona:

Lu demònie maledètte
je pescève dèntr a lù liètt
Sant’Antonie ce lù tròve
ce lu ‘mbìcche e ce le ‘nchiòve.

[Il demonio maledetto
gli pisciava dentro il letto
Sant’Antonio ce lo trova
ce lo impicca e ce lo inchioda.]

L’esplosione della risata che segue” – scrive lo storico Vittorio Monaco – “è liberatoria di tutto ciò che turba, inquieta ed opprime“. Un modo quindi per scacciare i fantasmi di un ignoto che spaventa, quello delle tenebre, del maligno, con l’esuberanza e lo scongiuro.

Il fuoco di Sant’Antonio.

Non meno importanti della benedizione degli animali e dei canti di questua sono inoltre i tradizionali fuochi di Sant’Antonio, organizzati la notte del 16 o del 17 Gennaio in molte località abruzzesi. Dalla Valle Peligna alla Marsica sino ai comuni del chietino e del teramano: l’origine di queste celebrazioni si perde nella notte dei tempi, in quel perpetuo mescolarsi di sacro e profano che è proprio delle tradizioni popolari, e che in Abruzzo più che in altri luoghi è ancora possibile riconoscere.

Celebri sono quelli delle farchie di Fara Filorum Petri, in provincia di Chieti, in cui degli alti fusti di canne vengono dati alle fiamme e continuano a bruciare fino a notte inoltrata. Uno spettacolo oggi meta di moltissimi avventori, che giungono puntualmente in questo piccolo borgo del chietino affascinati dal primitivo spettacolo che le pire notturne sono in grado di offrire.

Fara filorum petri

Le farchie di Fara Filorum Petri

Quella di accendere fuochi in onore di Sant’Antonio è una tradizione che ritrova nei riti solari di memoria pagana tutta la sua incredibile potenza evocativa. Attraverso l’incendio di queste cataste di legna, spesso fomentate da sterpaglie di ginepro per aumentarne il fragore, si sosteneva il risveglio del sole dopo il lungo letargo invernale. In epoche più recenti, l’evento era un’occasione conviviale tra abitanti dello stesso quartiere, che spesso rivaleggiavano scherzosamente contro altri concittadini per chi fosse riuscito ad accendere il fuoco più alto e maestoso. C’era chi poi, tra i più anziani, si preoccupava di riportare a casa un po’ di brace, considerata sacra perché dedicata al santo e nello specifico di buon augurio nel combattere l’herpes zoster, il moderno “Fuoco di Sant’Antonio“.

Un bicchiere di vino al caldo delle fiamme e lo spiluccamento dei granati, chicchi di mais bollito e talvolta fritti con aglio e peperoncino, scandivano le ore in una gioiosa atmosfera di festa.

I granati nello specifico rappresentano un aspetto tra i più interessanti, in quanto ad oggi praticamente scomparsi dalla memoria collettiva, e che sopravvivono solo in sporadiche manifestazioni come, per l’appunto, quella dedicata a Sant’Antonio nel paese di Raiano, alle porte della Valle Peligna.

La loro funzione simbolica nell’antica tradizione contadina abruzzese era invece di un certo rilievo. Erano infatti cibo dei morti durante i giorni del Capetièmpe, da donare a mendicanti o bambini in virtù di obolo verso i defunti, o simbolo di gràscia, ossia di abbondanza, in occasioni festose come quella dei fuochi descritta poc’anzi.

sant'antonio abate abruzzo

La statua di Sant’Antonio Abate portata in processione a Raiano (AQ)

Al di là di tutto, il carattere delle celebrazioni in onore di Sant’Antonio era essenzialmente quello di una festa. Tra le varie nozioni trovate lungo la stesura di questo articolo mi sono imbattuto in un sonetto che gli antichi abitanti di Pratola Peligna (AQ) erano soliti recitare alla vigilia del giorno del santo e che a mio avviso rappresenta nella sua semplicità il più vivo carattere di questa ricorrenza. Anche questo, come quello di Sulmona, è stato raccolto da Ottaviano Giannangeli, storico della cultura popolare abruzzese, e recita così:

Se la hatte tè la còra rìcce
dàcce na pòche de savecìcce
se la hatte tè la còra nere
pije la brocca i… mìttece a bève!


Segui Gotico Abruzzese anche Facebook.

Vivo a Sulmona (AQ), dove sono nato e dove da qualche anno ho deciso di tornare a vivere. Mi occupo di web content e redazione di articoli, saggi e sceneggiature. Dall'autunno del 2013 sono inoltre editor di Gotico Abruzzese, un progetto nato con l'intento di raccontare un Abruzzo onirico e fuori dall'ordinario.